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Gennarino
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Cliccate su di
me, andremo in un mondo pieno di POTENZA!!! |
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Peppino
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Non date retta
a Gennarino, ascoltate me, siate sobri e composti! |
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Gino
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Hei raga... lasciate
perdere quei due e sparatevi i miei sketch! |
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Maria
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NO gente...
non ci siamo: non ascoltateli quelli del piano di su! Date retta a
me che sono una donna che ha capito la differenza fra evangelici e
cattolici! |
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UMORISMO BIBLICO
Se si dovesse
pensare che l'umorismo sia nato solo in contesti ludici e satirici,
allora ci si sbaglia di grosso. La Bibbia stessa è piena di situazioni
comiche, tragicomiche e umoristiche. Volete qualche esempio?
Balaam ,il falso
profeta che doveva maledire gli Israeliti, udì parlare nientepopodimeno
che, la sua fida asina: Numeri 22:28 Allora il SIGNORE aprì la
bocca dell'asina, che disse a Balaam: «Che cosa ti ho fatto perché tu mi
percuota già per la terza volta?»
I filistei (uno
dei popoli nemici degli israeliti) furono puniti da Dio, ma come?
1Samuele 5:12 Quelli che non morivano erano colpiti d'emorroidi e
le grida della città salivano fino al cielo. E' ovvio immaginare la
scena! Ma non finisce qui. Oltre al danno le beffe!!! 1Samuele 6:5
Fate dunque delle riproduzioni delle vostre emorroidi e delle
sculture dei topi che vi devastano il paese, e date gloria al Dio
d'Israele; forse egli alleggerirà la sua mano da sopra di voi, da sopra
i vostri dèi, e da sopra il vostro paese.
Desta una certa
ilarità anche la descrizione di un uomo trovato morto in battaglia:
2Samuele 21:20 Ci fu un'altra battaglia a Gat, dove si trovò un
uomo di grande statura, che aveva sei dita in ciascuna mano e in ciascun
piede, in tutto ventiquattro dita, e che era egli pure dei discendenti
di Rafa.
Ma anche nel Nuovo
Testamento troviamo spunti umoristici come ad esempio il discorso di
Gesù nei confronti di Marta. Il tono era sicuramente umoristico, se non
altro nella ripetizione del nome di Marta. Luca 10:41 Ma il
Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e sei agitata per molte
cose, ma una cosa sola è necessaria.
Riguardo
all'umorismo ebraico ho voluto inserire un articolo di Piero Stefani,
(Articolo apparso su Servitium n.123/1999, «Ridere», pp. 247-258).
RISO ED EBRAISMO
La battuta, il
motto di spirito, la storiella, la barzelletta sono parole che si
riferiscono a un ambito più variegato di quanto possa sembrare a colpo
d’occhio. I primi due termini indicano una realtà sorgiva, apparsa
improvvisamente in un contesto preciso, solo entro il quale mantengono
la loro autentica vivezza; una battuta può anche essere riferita, anzi
alcune di esse sono diventate dei veri e propri topoi; eppure la loro
ripetizione comporta sempre un allontanamento dal «fuoco delle origini»
e dall’inventiva che sa cogliere un accostamento inatteso, un paragone
imprevisto, un doppio senso non colto dai più e così via. Non a caso,
quando si racconta una battuta occorre, di norma, trasmettere qualcosa
delle circostanze in cui è sorta: in quel luogo, in quel tempo, quella
determinata persona ha detto così e così. Al contrario, la storiella e
la barzelletta sono congegnate proprio per essere ripetute e per
instaurare una catena aperta in cui si continua a passare dalla bocca
dell’uno agli orecchi dell’altro. In questo transitare esse godono di
tanta maggior salute quanto più, pur evitando il rischio dell’espansione
pletorica, sono parzialmente rinnovate e arricchite di varianti. La
ripetizione meccanica di una storiella la consegna a una monotonia
captata sotterraneamente anche da chi la sta ascoltando per la prima
volta.
Motto di spirito e
storiella, pur essendo tendenzialmente orientati in direzioni opposte,
si riferiscono però pur sempre a un ambito comune: l’oralità; entrambi
infatti sono consegnati a una specie di rigor mortis quando divengono
materiale scritto. La differenza che passa tra i libri che raccolgono,
ordinandoli per genere e specie, battute, motti di spirito, storielle o
barzellette e la dimensione orale in cui tutti questi tipi di umorismo
sono nati, richiama quella che distingue le bacheche dell’entomologo da
un libero e lieve svolazzare di farfalle. A vantaggio dei testi scritti
vi è solo il fatto che, nei casi migliori, i loro contenuti possono
diventare tracce da riconsegnare a chi li sa riraccontare; di contro
solo un essere divino potrebbe, battendo le mani, far spiccare il volo
ai coleotteri posti sotto vetro nei musei di scienze naturali.
La sala di
rianimazione delle storielle è lo spettacolo in cui un bravo attore le
rivitalizza rinarrandole; tuttavia la prognosi resta riservata in quanto
rimane lo scompenso strutturale in cui uno solo racconta, mentre tutti
gli altri stanno semplicemente ad ascoltare. La vecchia battuta del
cabarettista che risponde «orecchio» allo spettatore che, non riuscendo
bene a captare un doppio senso un po’ spinto, gli aveva gridato «voce»,
sintetizza bene questa invalicabile diversificazione di ruoli. La
situazione artificiale propria di uno spettacolo impedisce la coralità
degli interventi che è il succo stesso del raccontare in modo amicale
barzellette, cioè di una situazione in cui ognuno dei protagonisti vuole
aggiungere la sua: tra uno spettacolo basato su storielle e un gruppo di
amici che si dedica alla stessa attività vi è la medesima differenza che
passa tra un regime monopolistico e uno basato sulla libera concorrenza.
Quanto più si
moltiplicano i libri, gli spettacoli, i film imperniati sulle storielle
e sui motti di spirito ebraici tanto più si diventa consapevoli
dell’esistenza di una distanza incolmabile che ci separa dal contesto in
cui è rigogliosamente germinato l’umorismo ebraico. Senza dubbio, prima
che sorgesse questa specie di «moda culturale», fuori dalla cerchia
degli «addetti ai lavori» si ignorava semplicemente la realtà del Witz e
dell’umorismo ebraici. L’inattesa scoperta di questo mondo ha fatto sì
che molti, invece di avvertire un estraneamento, credessero di conoscere
davvero un ambiente. In effetti per rendersi conto di quest’ultimo non
basta leggere libri e assistere a spettacoli i cui protagonisti si
chiamano Moischele, Sarele, Davidele e in cui molto spazio è riservato a
qualche implacabilmente amorosa jidische mame. Invero un certo progresso
potrebbe derivare anche dal porsi questa semplice domanda: perché in
quelle storielle non ci si imbatte mai in un Ravenna, in un Ottolenghi,
in un Morpurgo, in un Di Nepi o in un qualsiasi altro personaggio
contraddistinto da un tipico cognome di ebrei italiani? A ben pensarci
il massimo concesso è infatti di incontrare qualche ebreo triestino di
confine. Tuttavia anche questo rilievo, per quanto pertinente, non è
comunque sufficiente in quanto, per affrontare in modo convincente
simili temi, occorre impostare un discorso dal respiro addirittura
plurisecolare.
L’opinione secondo
cui l’umorismo sia una cifra propria dell’animo ebraico si sposa di
solito con la convinzione stando alla quale la sua essenza è ben
espressa dalla sentenza proverbiale: «si ride per non piangere». Tutto
ciò risulta con particolare evidenza quando ci si deve confrontare con
l’antisemitismo; infatti, in tal caso, l’umorismo esprimerebbe
essenzialmente «la tecnica psicodinamica con la quale il popolo ebraico»
per quasi venti secoli «affrontò e sopportò i tremendi colpi inflittigli
dall’antisemitismo». Davanti all’antisemita l’ebreo è a priori un
colpevole, ogni tentativo di difendersi con argomenti ragionevoli non
fa, quindi, che aggravare la sua situazione; in simili casi si è presi
entro una spirale senza scampo. L’unica risposta sta allora nel
trasferire la replica su un altro piano, quello appunto del Witz in cui
si comprende che affrontare l’antisemita sul suo stesso piano equivale
già a un’implicita ammissione di colpa. L’umorismo ebraico prende quindi
apparentemente sul serio le accuse antisemite, ma facendole proprie le
trasferisce ipso facto su un altro registro: quello di un’ironia diretta
sulle prime contro di sé, ma, in realtà, indirizzata soprattutto contro
gli altri. Simili osservazioni fanno capire perché vi sia un’abissale
differenza tra le barzellette degli ebrei e quelle sugli ebrei. Le
storielle ebraiche hanno perciò innanzitutto bisogno del loro pubblico
che sa che a raccontarle è «uno dei loro».
Senza dubbio
sarebbe eccessivo negare a considerazioni come quelle appena esposte una
loro validità, ma sarebbe fuorviante anche ritenerle un passe-partout
capace di dare una descrizione di tutti gli anfratti dell’animo ebraico.
È ben vero che qualcuno ha voluto, arrampicandosi sugli specchi,
rintracciare segni consistenti di umorismo ebraico fin nella Bibbia e, a
fortiori, nel Talmud; ma alla fine quei tentativi hanno reso evidente
che questa dimensione costituisce un’eccezione e non certo una regola.
Piuttosto che
cercare il «filo rosso» dell’umorismo ebraico là dove esso non c’è, è
meglio limitarsi a prendere atto del dato di fondo che nella letteratura
talmudica sono state elaborate delle procedure che costituiscono
effettivamente uno dei riferimenti indispensabili per comprendere quello
che sarebbe diventato l’umorismo ebraico. In questo novero rientra, ad
esempio, il ragionamento sottile mosso da una serie di domande e
risposte destinate a sfociare a loro volta in altre domande. Anzi,
alcune di queste acute disquisizioni riproposte fuori dal loro contesto
originario, sono sembrate, loro malgrado, direttamente umoristiche. Già
Heine, riferendosi a un’accanita disputa tra le scuole rabbiniche di
Hillel e Shammaj posta all’inizio del trattato mishnico Bezà («uovo»)
(intitolato più propriamente anche Jom tov «giorno festivo»),
ironeggiava a proposito dell’uovo così sfortunato da essere depositato
proprio in un giorno di festa, creando in tal modo un mucchio di (pseudo)problemi
sul fatto se fosse lecito cibarsene. Discussione, ben s’intende,
all’origine serissima e addirittura in grado di aprire prospettive assai
significative rispetto al ruolo riservato all’intenzionalità nell’azione
umana, eppure involontariamente comica una volta sradicata dal suo
contesto primitivo e dal suo pubblico. Anche percorrendo un altro genere
letterario tipicamente rabbinico, quello degli aneddoti, dei racconti,
delle parabole spesso paradossali e fantasiosamente irrealistiche, più
volte ci si misura con una specie di «umorismo criptico» in cui, non di
rado, l’esempio portato come modello da seguire, visto in un altro
contesto, appare comico o quanto meno eccessivo. In quest’ultimo ambito
entra di diritto il caso di quel non ebreo portato a modello di come si
debba onorare la propria madre; egli infatti, quando fu pubblicamente
percosso con una scarpa in faccia, senza motivo, dalla sua impetuosa
genitrice, non solo non protestò, ma addirittura si curvò per
raccogliere la calzatura che, nella foga, era scappata di mano a sua
mamma (j. Peà, 15c). L’assoluta cedevolezza del figlio sembra
imparentarsi con la storiella - incredibilmente scambiata per vera da
Freud - in cui si parla di alcuni ebrei berlinesi che, a metà degli anni
Trenta, inscenarono una manifestazione sotto le finestre di Hitler
innalzando dei sarcastici cartelli con su scritto: «Buttateci fuori».
Nel Talmud il comportamento del pio non ebreo non è però affatto
giudicato in modo ironico, al contrario esso è presentato come un
positivo modello da seguire.
Con tutto ciò, la
letteratura rabbinica resta davvero una delle condizioni basilari che
consentirono all’umorismo ebraico di diventare, in un determinato
momento storico e in specifiche aree geografiche, una cifra capace di
evidenziare il volto di un intero mondo. Per comprendere ciò occorre
pensare soprattutto a una dimensione fondamentale del giudaismo
rabbinico (di cui il Talmud è il massimo monumento), quella della Torà
orale. Per quanto sia invalso l’uso di chiamare gli ebrei il «popolo del
Libro», in realtà la scrittura non è la sola, né per certi aspetti la
più importante, tra tutte le facce della cultura ebraica. Infatti per
comprendere il giudaismo rabbinico bisogna essere disposti ad attribuire
al processo di trasmissione, discussione e interpretazione della parola
il ruolo di componente organica della stessa rivelazione. Additare la
centralità della Torà scritta (cioè del Pentateuco) come fondamento
della vita religiosa d’Israele non è sufficiente per qualificare lo
specifico di questo tipo di ebraismo. Per il giudaismo rabbinico,
infatti la Torà non è solo «rotolo», è anche un «simbolo» della totalità
del proprio «sistema religioso»; tutti i punti fondamentali della vita e
della storia d’Israele giungono infatti a piena espressione attraverso
questo termine.
Il tramandare la
parola rivelata di generazione in generazione non costituisce un puro
trasferimento di un testo immutabile, rappresenta piuttosto la scelta di
collegarlo saldamente alla sua interpretazione e alla sua
attualizzazione. Ecco dunque che, accanto alla Torà scritta sorge quella
orale, la quale si presenta innanzitutto come la prima indispensabile
interpretazione della Legge scritta. Tuttavia neppure questa
precisazione è sufficiente a stabilire lo specifico del giudaismo
rabbinico. Questo particolare tipo di ebraismo, diventato la forma di
gran lunga prevalente nei secoli della nostra era, consiste infatti
nell’elaborazione di un «sistema religioso» in cui sia la Torà scritta
sia quella orale sono viste come due parti integranti e inseparabili
della stessa rivelazione. In definitiva la Torà orale è la capacità di
far sì che il Sinai (simbolo «puntiforme» della rivelazione della Torà
scritta) possa diventare sempre un «oggi».
Per comprendere
meglio come ciò costituisca un antefatto al mondo descritto dalle
storielle ebraiche bisogna tenere conto di altri tratti caratteristici:
prima di tutto, solo con grande difficoltà la Torà orale venne infine
codificata in raccolte scritte (a lungo prevalse infatti la convinzione
secondo cui quanto è detto va ripetuto e non già scritto); in secondo
luogo, si è creduto a lungo che Dio avesse stipulato la sua alleanza con
il popolo d’Israele specificatamente in base alla Torà orale e non già a
quella scritta (la quale sarebbe diventata propria anche dei cristiani);
in terzo luogo, la dimensione dell’oralità interpretante costituisce
l’orizzonte in cui la novità si presenta come un modo per restare fedeli
all’origine. «Anche ciò che un discepolo esperto dirà di fronte al suo
maestro è già stato detto a Mosè sul Sinai» (j. Peà, 2,4); questa frase,
all’apparenza statica, esprime invece un grande dinamismo: l’allievo
inventa qualcosa, questa novità però non segna uno iato, bensì uno
sviluppo fedele di quanto c’è potenzialmente fin dal principio. Per
tutte queste caratteristiche la Torà orale è il massimo luogo di
definizione del «sé ebraico» che, raccontandosi, si tramanda di
generazione in generazione. Il flusso dell’oralità consente a un momento
sorgivo e irripetibile di prolungarsi nel tempo.
Quando si
stabilisce correttamente la propria identità non è possibile non
confrontarsi con gli «altri». Nelle pagine bibliche e talmudiche la
presenza dei non ebrei è una costante significativa. Analogamente ben
attestata è l’esistenza di un confronto, spesso problematico, con gli
«altri». Riferendosi a questo contesto il giudaismo rabbinico si
chiedeva perché quella vocazione particolare, di cui la Torà è il
massimo emblema, sia stata rivolta proprio a Israele - che già il
Deuteronomio (7,7) definiva il più piccolo tutti i popoli - e non alle
genti. La Torà orale risponde a tale quesito sostenendo che
precedentemente Dio aveva in effetti offerto la sua Torà a molti altri e
più importanti popoli, essi però avevano tutti posto delle pesanti
condizioni per accettazione di essa; da ultimo il Signore si rivolse a
questa minuscola popolazione la quale, non avendo niente da perdere,
disse: «Tutto quello che il Signore ha detto faremo ed ascolteremo» (Es
24,7) (cfr. Sifrè al Deuteronomio, 343). Nell’Europa orientale in
ambiente chassidico questa storia, originatasi per giustificare il
proprio «sé» ebraico, divenne poi un modo per esprimere un’intima
contesa con un Dio inteso in modo molto familiare. La storia afferma
infatti che un ebreo si rivolse a Dio pressappoco in questi termini:
«Non ti ricordi Signore quando sul Sinai ti comportavi come un mercante
che tentava di vendere la sua partita di mele marce? Nessuno le voleva
fino a quando venne Israele che ebbe compassione di te; ora perciò Dio
non dimenticarti del tuo popolo e non lasciarlo andare in rovina». Una
volta introdotta la metafora mercantile, essa però può venire sviluppata
in modo ben più autoironico di quanto non avvenga in questa storia
chassidica. Infatti, secondo un’arguta storiella, il Signore, dopo
averla offerta vanamente a molti altri, giunse infine a offrire la Torà
al popolo ebraico, sentendosi rispondere: «Quanto costa ?» - «Nulla» -
«Allora dammene due!» (appunto la Torà scritta e quella orale).
Questi tre
passaggi che vanno dal racconto esegetico (midrash) fino alla storiella
simboleggiano un itinerario al termine del quale si può avanzare la non
spericolata ipotesi stando alla quale l’umorismo ebraico, al suo apice,
costituì una vera e propria forma secolarizzata di Torà orale. Una
citatissima sentenza chassidica afferma: «Tutte le gioie vengono dal
paradiso, anche lo scherzo (Witz) se è detto con vera gioia»;
analogamente si potrebbe dire che, alla lunga, anche l’umorismo ebraico
deriva dal Sinai dove venne donata l’una e l’altra Torà. Questa tesi è
difendibile, oltre che facendo riferimento ad analogie formali, anche
appellandosi a prospettive contenutistiche e storiche. Formalmente sia
la Torà orale sia l’umorismo ebraico vivono in quanto sono raccontati,
interpretati, ampliati e attualizzati, mentre entrambi perdono
consistenza non appena sono semplicemente codificati. La polarità
esistente tra punto originario e ripetizione innovativa, evidenziatasi
nel confronto tra Sinai e accademie rabbiniche che elaboravano la Torà
orale, trova una specie di riscontro nell’ambito dell’umorismo nel
confronto tra la realtà «puntiforme» del motto di spirito - che è una
specie di versione profana dell’improvviso, antico riversarsi dello
Spirito sul profeta (qui l’italiano resta felicemente ambiguo) - e il
tramandarsi delle storielle.
Queste analogie
prese in se stesse potrebbero sembrare, non a torto, forzose e
stiracchiate, tuttavia, oltre ad esse, ci si può riferire a quello che,
in effetti, è l’elemento chiave dell’intera ipotesi: il ruolo svolto da
entrambe le componenti nella «definizione del sé ebraico». La Torà orale
fu per lunghi secoli il cuore della identità ebraica, in essa i
comportamenti e i racconti, i modi di pensare e di agire trovavano la
loro espressione più piena; lì l’ebreo si sentiva veramente tale, lì
stabiliva il confine che divideva la propria identità da quella degli
altri. L’umorismo ebraico trova la sua materia prima proprio riferendosi
a quel mondo; se si togliessero le sinagoghe e le scuole talmudiche, le
feste e le regole alimentari, i matrimoni e le circoncisioni e via
dicendo si eliminerebbe la quasi totalità delle storielle. Inoltre non è
eccessivo sostenere che, in un certo periodo, al Witz ebraico è stato
assegnato il compito sociale e culturale di esprimere in modo ironico,
ma preciso la distinzione tra «sé» e gli «altri».
Non basta dire che
l’umorismo è l’abilità di saper ridere di se stessi, qualora non si
aggiunga subito che in ciò va compresa la capacità di fare altrettanto
anche nei confronti della propria tradizione religiosa. Si dirà che le
barzellette sull’aldilà, il papa, i vescovi e i preti sono all’ordine
del giorno anche in ambito cattolico; ciò svolge prima di tutto la
funzione di definizione di un ambito interno, tanto è vero che, non di
rado, si ricorre ad esse o per difendersi in modo ironico e, quindi
legittimato, dalla pressione gerarchica (in questo senso le barzellette
sono l’arguta versione pubblica delle chiacchiere di corridoio) o per
demitizzare visioni ultraterrene ormai impossibili da assumere
seriamente (cosa resterebbe della pletora di barzellette sull’aldilà se
si togliesse la funzione di guardiano del Paradiso attribuita a S.
Pietro?). Di certo si potrebbe ricavare più di un’analogia interessante
nel paragonare le modalità in cui le storielle nascono all’interno delle
varie culture religiose; probabilmente da quest’indagine deriverebbe una
costante: quella di legittimare il racconto interno e di bollare quello
esterno (anche le barzellette dei preti sono diverse da quelli sui
preti, specie se raccontate da anticlericali). Tuttavia l’epopea delle
storielle ebraiche è più corale di quelle presenti nelle barzellette
clericali. È vero che nell’umorismo ebraico i rabbini sono largamente
rappresentati, ma non sono certo i soli: gli autentici protagonisti sono
tutti coloro che definiscono l’ambito di vita collettivo ebraico a
cominciare da Dio e dal suo patto con il popolo ebraico per giungere
fino alla jidische mame (il cui atteggiamento preoccupato e
iperpremuroso rappresenta una specie di versione secolarizzata di un
noto passo biblico: «Ascolta figlio mio... non disprezzare la torà
[insegnamento] di tua madre» Pr 1,8). Se Dio è protagonista di tante
storielle ebraiche, lo è solo perché Egli si è legato al suo popolo
divenendo in tal modo, se così si potesse dire, il massimo referente
dell’identità ebraica. Il cuore delle storielle ebraiche resta sempre la
definizione del «sé», atto che può avvenire solo se, direttamente o
indirettamente, ci si confronta con gli «altri».
Proprio queste
ultime osservazioni fanno comprendere una prospettiva di capitale
importanza; perché sorgesse l’epopea dell’umorismo ebraico occorrevano
almeno tre condizioni: primo, che ci fosse un modo di vita ebraico
dotato di dimensioni sociali sufficientemente ampie; secondo, che esso
fosse in correlazione stretta e quotidiana con un ambiente non ebraico
di cui si conoscevano gli stili di vita e che sovente, ma non
necessariamente, si presentasse ostile nei confronti degli ebrei; terzo,
che al suo interno il mondo ebraico fosse variegato e ricco di contrasti
dovuti anche al fatto che alcune componenti ebraiche avevano
introiettato in se stesse delle convinzioni, dei modi di agire e di
comportarsi propri dell’ambiente non ebraico circostante. Così ad
esempio, la famosa storiella del piissimo ebreo che, dopo aver chiamato
in punto di morte il prete per farsi battezzare, risponde alla
scandalizzata perplessità della moglie affermando: «È meglio che muoia
uno dei loro che uno dei nostri», presuppone, per esser colta in tutto
il suo spessore, oltre all’esistenza di un clima di frizione tra le due
comunità religiose, anche la diffusione di spinte assimilatorie in virtù
delle quali un numero crescente di ebrei si faceva cristiano proprio per
cercare di diventare in tutto e per tutto «uno dei loro».
Naturalmente le
tre condizioni appena indicate non vogliono presentarsi come base
esclusiva dell’esistenza di ogni forma di storiella ebraica, pretendono
però di indicare i presupposti grazie ai quali l’umorismo ebraico ha
potuto assumere la dimensione dell’epopea, diventando specchio
privilegiato di un’intera civiltà.
Franz Kafka una
volta qualificò la psicoanalisi come il commento di Rashi della sua
generazione; sulla scorta di questa suggestione non sarebbe sbagliato
affermare che il Witz costituì una specie di Torà orale di un intero,
vasto ambiente culturale e sociale. Quale? Il mondo ebraico dell’Est
europeo tra il XIX e l’inizio del XX secolo (il nome dell’iniziatore di
questo filone è di solito, non a caso, individuato in Herschel da
Ostropol morto ai primi del XIX sec.) entro il quale convivevano (e
litigavano) ortodossi e atei, sionisti e antiosionisti, marxisti e
chassidim, talmudisti e letterati, pochi ricchi e molti poveri. Rispetto
all’esterno quel mondo ebraico conosceva dal suo canto sia convivenze
secolari sia le vampate devastanti dei pogrom. La terra di elezione
dell’umorismo ebraico è dunque la Ostjüddishkeit; a partire da essa si
sono poi avute varie diramazioni ricalcate sulle ondate migratorie di
ebrei che si muovevano verso ovest. Di questo flusso si trovano tracce a
Parigi e a Londra; tuttavia la sua vita è proseguita soprattutto al di
là dell’oceano dove si è potuto ricostruire un ambiente ebraico
sufficientemente ampio, vario e contraddittorio, il quale, tra l’altro,
ha potuto abbondantemente attingere anche al pensiero di Sigmund Freud
(e ai suoi discepoli ortododdi ed eretici): il Rashi del XX secolo.
«Abbiamo sofferto tanto» dice un ebreo all’amico «pogrom, esilio,
stermini… però, vedi come li abbiamo fregati!». «E come?», chiede
l’amico. «Non vedi? Con la psicoanalisi». Anche l’ambito americano però
è, per questo aspetto, già tramontato e non basta certo un Woody Allen
sempre stanco e invecchiato a far credere che quel tipo di umorismo
possa avere un destino diverso dal diventare letteratura o, al più,
spettacolo.
L’unico punto di
riferimento rispetto al quale l’umorismo ebraico potrà continuare a
vivere come una specie di «Torà orale secolarizzata» è, sia per chi vi
vive sia per chi risiede lontano, la società israeliana. Le
contraddizioni interne, le ostilità e le forme di attrazione che
provengono dall’esterno, al giorno d’oggi, culminano nel confronto tra
l’unica società al mondo a maggioranza ebraica, appunto quella
israeliana, e una diaspora ebraica tuttora presente in moltissimi paesi.
Gli spazi per un corposa autoironia si danno solo qui, proprio dove il
confronto è più aspro. Anche in ambito israeliano però il futuro
dell’umorismo ebraico non appare particolarmente roseo, o, in ogni caso,
subirà una profonda ridefinizione venendo declinato in maniera sempre
più nazionale. Il superamento di fratture frontali interne - si pensi,
ad esempio, a quello esistente tra ortodossi e laici - esigerebbe la
presenza di una lingua comune, tuttavia pare assai difficile credere che
essa possa essere quella del Witz. A quel che è dato di vedere la
contrapposizione tra i due schieramenti sembra infatti farsi di giorno
in giorno più radicale, cosicché da un lato pare esserci spazio
soprattutto per un’ortodossia seriosamente fondamentalistica, mentre
dall’altro sembra esserci una laicità che trae i propri titoli di
credito soprattutto dall’essere contro i religiosi. In questo contesto
non è facile saper ridere di se stessi e della propria tradizione
religiosa, anche perché, come dimostra la storiella che segue, si è
ormai in una situazione in cui la memoria della propria tradizione -
presupposto fondamentale a ogni tipo di «Torà orale» (compresa quella
umoristica) - pare prossima ad estinguersi. Occorre premettere che per
comprendere la storiella bisogna tener presenti due fatti: primo, che
Israel è un nome proprio alquanto diffuso; secondo, che lo Shema‘ Israel
(«Ascolta, Israele») (cfr Dt 6,4) è il celeberrimo inizio della
cosiddetta «professione di fede ebraica». Due israeliani si trovano
all’improvviso di fronte a un edificio in fiamme, ovunque si alzano
rumori e grida. Uno dei due casuali spettatori, preso dallo
sbigottimento, esclama : «Shema‘ Israel» e l’altro gli risponde: «Senti
un po’! Prima di tutto non mi chiamo affatto Israel e in secondo luogo
non ho proprio nulla da ascoltare da te». |